mercoledì 10 febbraio 2010

Eugenio Montale


In qualche luogo
dell'immane edifizio
forse in un sottoscala
o in un altro più recondito, non proprio
non sempre nel WC può nascere e attecchire
certo fiore talora maleodorante
che troveremo poi nelle antologie
sotto la voce Poesia e che lascia
interdetti e dubbiosi su quelle origini
che non diremmo gentilizie ma
alquanto bordellesche?
Domani
sarà diverso o peggio. Se le Muse
hanno tanto di barba più nessuno
dirà superflua l'opera del tonsore.
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(apparsa in "Nuovi poeti in Liguria", 1981)
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Questa di Eugenio Montale è una vera e propria rarità: nell’antologia Mondadori che raccoglie tutte le poesie non c'è. Fa parte di un ritaglio di giornale che risale ai giorni successivi alla morte del poeta, nel settembre del 1981. Credo che sia l'ultima poesia pubblicata in vita dal poeta genovese. Si inserisce nel dibattito sull’essenza della poesia.
Montale, ormai ottantacinquenne, si interroga sul futuro della poesia, sulla strada intrapresa in quello scorcio finale di secolo e di millennio. L’anziano poeta usa un’immagine alquanto impoetica, addirittura scatologica, per definire l’origine della nuova poesia: ma la poesia rimane “fiore”, seppure “maleodorante”. Si può paragonarla al fiore più grande che esista, l'Amorphophallus titanum: ha un'altezza di tre metri ed una sua forma di bellezza, pur emanando un terrificante odore di carne putrida.
È ancora poesia, pur avendo intrapreso una strada differente, pur avendo abbandonato le strade signorili per inerpicarsi sulle vie del vizio. La Musa barbuta, transgender, del finale è un indovinato esempio per rappresentare questa nuova poesia: più che l’opera del poeta servirà allora quella del barbiere…
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