lunedì 14 dicembre 2009

Bruno Caccia


Fu ucciso la sera del 26 giugno 1983.
A colpirlo la 'ndrangheta.
Bruno Caccia, magistrato tutto d'un pezzo, procuratore della Repubblica di Torino. Fu un magistrato tradizionalista, capace di dimettersi dall'Anm solo perché aveva proclamato uno sciopero (di cui pure condivideva le ragioni), fu uomo "con cui non si poteva parlare" (come dissero gli 'ndranghetisti), personaggio capace di mettere il figlio di un ministro della giustizia sotto inchiesta. Una persona perbene e per questo andava uccisa. La sera del 26 giugno 1983 Bruno Caccia, di ritorno da fuori città, senza la sua scorta decise di portare a passeggio il suocane sotto casa. Una macchina gli si affiancò. A bordo due uomini che gli spararono contro 14 colpi di pistola.
Dissero che a ucciderlo erano state le Brigate rosse, poi i neofascisti dei Nar.
Fu la 'ndrangheta: una risposta al fatto che il giudice nato a Cuneo s'era messo in testa di impedire alle cosche calabresi di spadroneggiare in Piemonte (dove da alcuni anni ormai a ritmi sempre più veloci stava entrando nei gangli del potere). I giudici della Corte d'Assise d'Appello di Milano hanno scritto nella sentenza di condanna dei mandanti del suo omicidio: "Egli poté apparire ai suoi assassini eccessivamente intransigente soltanto a causa della benevola disposizione che il clan dei calabresi riconosceva a torto o a ragione in altri giudici. Perché questo clan aveva ottenuto in quegli anni la confidenza, la disponibilità o addirittura l'amicizia di alcuni magistrati".
Per il suo omicidio è stato condannato all'ergastolo Domenico Belfiore, considerato uno dei capi della 'ndrangheta piemontese.
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