Forse un mattino andando in un'aria di vetro,
arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo:
il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro
di me, con un terrore di ubriaco.
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Poi come s'uno schermo, s'accamperanno di gitto
alberi case colli per l'inganno consueto.
Ma sarà troppo tardi; ed io me n'andrò zitto
tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto.
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da Ossi di seppia di Eugenio Montale, 1925
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Questo testo è stato definito da un nostro filosofo, Sergio Moravia, come "uno dei vertici della lirica non del Novecento italiano, ma della lirica dell'intero mondo d'Occidente". Forse questo apprezzamento appare in verità eccessivo, ma lo si può giustificare in quanto siamo di fronte a un testo poetico che ha un contenuto indubbiamente filosofico, quantunque espresso attraverso immagini anziché mediante concetti. Esso descrive infatti una rivelazione, una manifestazione improvvisa (epifania) del "nulla", del "vuoto", e dunque dell'assurdità dell'esistenza. Il futuro ipotetico ("Forse... vedrò") presenta il "miracolo" (cioè l'epifania del "nulla") come un possibile eppur straordinario evento, che infrange le leggi naturali. L'"aria di vetro" (cioè così tersa, limpida e secca da sembrare artificiale) indica infatti il carattere irreale di una simile esperienza. La scoperta o l'intuizione del "nulla", del "vuoto", è salutata dal poeta con favore (come "miracolo" appunto) perché corrisponde all'acquisizione della verità contrapposta all'"inganno consueto" (cioè all'apparente realtà delle cose); ma tale scoperta è anche sofferta come spaventosa vertigine: il "terrore di ubriaco" è infatti l'incertezza terrificante di chi ha perso ogni stabile punto di riferimento. Dopo la folgorazione - ma fittizie, come le immagini di un film proiettate "s'uno schermo" - tornano nuovamente a profilarsi le cose consuete della realtà, "alberi case colli". Ma appunto, se la vera realtà è il "nulla", gli oggetti dell'esperienza non sono che parvenze ingannevoli. Perciò, dopo la miracolosa esperienza, il poeta non può più tornare alla condizione abituale ma illusoria degli "uomini che non si voltano", cioè sono incapaci di porsi i grandi problemi metafisici e non possono, quindi, attingere alla consapevolezza del "nulla". Tale consapevolezza è per il poeta un privilegio, ma anche una condanna, perché lo obbliga alla solitudine e al silenzio ("me n'andrò zitto"), impossibilitato a svelare il suo "segreto" a chi non potrebbe intendenderlo. Come ultima notazione, possiamo osservare che "gli uomini che non si voltano", nella loro indifferenza per tutto ciò che non è (o meglio, non appare) qui ed ora, richiamano fortemente l'"uomo che se ne va sicuro" di un altro celebre osso montaliano: Non chiederci la parola.
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